Illustrissimo
Presidente del Consiglio dei Ministri della
Repubblica Italiana
Illustrissimo
Presidente della Associazione Bancaria Italiana – ABI
Illustrissimo
Presidente di Federazione Italiana delle
Banche di Credito Cooperativo/Casse - Federcasse
Illustrissimi Presidenti,
Dal 2008 ad oggi il nostro Paese ha progressivamente perso competitività, risentendo della recessione economica in modo grave e diffuso.
La produttività è calata del 25% circa e il PIL, in 7 anni, ha avuto un decremento di 4,5 punti.
L’occupazione è scesa vertiginosamente e ed il tasso di disoccupazione, che non tiene conto degli ormai tantissimi “scoraggiati” che hanno rinunciato a cercare un lavoro, ha superato livelli mai sfiorati nella storia passata (13%), in particolare per quanto riguarda i giovani (43%), che, mentre vedono sempre più lontano, precario e dequalificato il loro ingresso nel mondo del lavoro, maturano già adesso le condizioni per una vecchiaia priva di sufficienti mezzi di sostentamento.
Le disparità sociali sono via, via aumentate in questi anni di crisi e ad oggi la situazione di iniquità distributiva, che vede il 50% delle ricchezze concentrate nelle mani del 10% della popolazione, appare socialmente patologica ed economicamente improduttiva, tanto che anche Papa Francesco è intervenuto sul tema affermando che “non possiamo non riconoscere una grave crescita della povertà relativa, cioè di diseguaglianze tra persone e gruppi che convivono in una determinata regione o in un determinato contesto storico-culturale” per cui si rendono necessarie “politiche che servano ad attenuare una eccessiva sperequazione del reddito”.
In questo contesto il sistema bancario nazionale potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo determinante ed esemplare per il rilancio dell’economia nel Paese, la ripresa dell’occupazione, la sostenibilità dello sviluppo.
Ci sembra perciò miope e irresponsabile la scelta operata da ABI e da Federcasse di rinunciare intenzionalmente all’unità del sistema, abiurando una storia ventennale di concertazione virtuosa, nel corso della quale è stato possibile, con l’apporto responsabile delle parti sociali, riformare e modernizzare profondamente il sistema bancario italiano, proteggendolo da possibili nuovi colonialismi finanziari, orientandolo a comportamenti meno spregiudicati di quelli che, anche in Paesi a noi vicini, hanno costretto le finanze pubbliche farsi carico di interventi pesantissimi e, infine, evitando che le riorganizzazioni e le ristrutturazioni delle aziende causassero costi gravosi per i cittadini e per i lavoratori.
Siamo stati, in questi anni, protagonisti di scelte contrattuali e sociali che hanno innovato profondamente, oltre alla contrattazione di settore, i sistemi di welfare privato, sussidiari di quelli pubblici, a partire dalle casse sanitarie e dai fondi pensione, per arrivare ai fondi di solidarietà, che hanno consentito, senza alcun onere per la collettività di esodare anticipatamente circa 68.000 lavoratori, favorendo, quando possibile, anche un significativo ricambio generazionale, e, recentemente, al fondo per l’occupazione, che ha dato sostegno, negli ultimi due anni, ad oltre 9000 assunzioni a tempo indeterminato.
Lo sviluppo delle relazioni industriali nel settore è stato costantemente un modello di riferimento per la contrattazione nelle altre categorie e, perfino, per le leggi di questo Paese, eppure ci troviamo oggi a fronteggiare proprio la scelta unilaterale dell’ABI e di Federcasse di cancellare il sistema di relazioni che aveva reso possibile tutto ciò, operata attraverso la disdetta e la disapplicazione del Contratto Nazionale.
Lasciare tutti i bancari senza un contratto, alla mercé delle diverse spinte che ne potranno motivare l’operato in assenza di regole e tutele, non solo costituisce un affronto e uno smacco nei confronti della storia e degli interessi reali della categoria, ma, cosa più grave, espone il Paese al rischio di un impoverimento della capacità delle banche di offrire alla cittadinanza un’operatività coerente con i principi costituzionali, eretti, fra gli altri, a fondamenta della vita del Paese,
Cosa ne sarà, ad esempio, della formazione professionale del personale, in assenza di previsioni normative che già oggi, spesso, le banche facevano fatica a rispettare pur essendovi obbligate?
Cancellando le declaratorie, quale deontologia potrà essere pretesa nei confronti del lavoratore, privato di qualunque tutela professionale e costretto a correlare il proprio reddito solo a risultati quantitativi e non più alla qualità delle proprie competenze ed esperienze professionali?
E quanto sopra, come si concilierà con il dettato degli articoli 35 (formazione ed elevazione professionale dei lavoratori), 36 (diritto ad una retribuzione che garantisca condizioni di vita dignitose), 41 (contrasto tra l’attività di libera impresa e l’utilità sociale) e 47 (tutela del risparmio e del credito) della Costituzione della Repubblica Italiana?
I Sindacati del settore, dimostrando di non aver mai smarrita la via della responsabilità, avevano affrontato la fase dei rinnovi contrattuali, seppure schiaffeggiati da una prima proditoria disdetta anticipata da parte di ABI a settembre del 2013, poi emulata anche da Federcasse, con proposte di discussione attorno al modello, o meglio ai modelli, di cui il sistema bancario nazionale avrebbe potuto e dovuto dotarsi per affrontare le difficili sfide che lo attendevano e che ancora lo attendono.
Chiedevamo alle banche, come già avevamo fatto con maggior successo in altre epoche, di affrontare insieme i nodi strutturali del sistema, per provare a garantire la salute delle aziende, uno sviluppo economico sostenibile per l’Italia e la salvaguardia dell’occupazione e degli occupati delle banche.
La risposta dei banchieri è stata lapidaria: “Non ci interessa essere sistema”.
È una risposta che ha, per i lavoratori che rappresentiamo e per il Paese tutto, dei risvolti drammatici, anzi tragici.
Un Paese che si privi del proprio “sistema bancario” e lo indirizzi ad essere solo un “settore di aziende tra loro concorrenti”, un Paese in cui le banche perdano la propria vocazione principale di servizio allo sviluppo economico ed alla tutela del risparmio e si orientino a considerare il denaro al pari di una qualunque commodity, dalla cui “compravendita” ricavare il massimo lucro, un Paese siffatto è un Paese che ha rinunciato a promuovere autonomamente il proprio sviluppo e che si appresta a divenire colonia di altrui interessi.
In questo contesto, Illustrissimo Presidente del Consiglio, ci permettiamo di sollevare tutte le nostre riserve nei confronti del provvedimento di riforma delle Banche Popolari, non solo perché non riusciamo a capire quali siano i motivi di urgenza che impediscono un ordinario iter parlamentare in cui approfondire meglio opportunità e rischi del percorso avviato; non solo per i dati ampiamente verificati e pubblicati in questi giorni circa l’effettivo maggior contributo delle Popolari all’economia reale del Paese rispetto alle concorrenti SPA, non solo perché esse rappresentano un esempio, quasi sempre, molto virtuoso di democrazia economica realmente praticata, ma, infine, per l’inevitabile rischio che aziende, che costituiscono il principale riferimento per le famiglie e per le piccole e medie imprese italiane cadano nelle mani di quei colossi bancari internazionali che, negli anni, anche in questi ultimi, hanno dato prova di totale insensibilità sociale, concentrando, diversamente dal sistema bancario italiano, i propri interessi su attività di finanza speculativa e predatoria.
E ci domandiamo, se così accadesse, quale sarebbe l’ulteriore tributo che i lavoratori di queste banche dovrebbero pagare, dopo quelli innumerevoli già pagati alla crisi, in termini di numero degli occupati, di esternalizzazioni e di tutele contrattuali.
Illustrissimi Presidenti, Vi chiediamo, accumunandoVi nell’indirizzarVi questa lettera aperta, ognuno per la propria eminente responsabilità, di farVi carico di evitare una rottura senza precedenti nelle relazioni industriali del nostro Paese.
Siamo coscienti di come gli anni della crisi abbiamo messo a dura prova il sistema delle relazioni industriali nel Paese, a partire dal blocco salariale dei lavoratori del Pubblico Impiego dei quali abbiamo condiviso disagio e mobilitazioni.
Noi non crediamo, però, che la soluzione dei problemi economici che stiamo attraversando possa essere trovata riducendo costantemente la remunerazione relativa del lavoro e diminuendone le tutele attraverso l'abbandono della contrattazione nazionale.
Se ciò avvenisse nel settore bancario, sarebbe la prima volta dal dopoguerra in cui un’intera categoria di lavoratori potrebbe essere privata del proprio contratto di lavoro, insostituibile “carta costituzionale” del rapporto con le parti datoriali.
Sono le lavoratrici ed i lavoratori a cui ognuno di noi affida la gestione dei propri risparmi, la speranza di acquistare una casa per la propria famiglia, la ricerca di un sostegno alla propria attività produttiva o professionale…
Si tratta di lavoratrici e lavoratori che hanno sempre contribuito, con lealtà, onestà, professionalità, deontologia e straordinaria disponibilità ad accettare cambiamenti e innovazioni, alla crescita ed al sostegno del Paese.
Disconoscere ad essi i meriti della loro storia, pretendendo il taglio di tutele fondamentali, finalizzato peraltro a produrre risparmi insignificanti rispetto ai reali problemi delle banche, che non sono da ricercare nel costo del lavoro, è strumentale a generare le condizioni di un’insanabile rottura, prodromica a rinnegare, insieme ai Contratti Nazionali, l’idea di “sistema bancario al servizio del Paese” per cui da sempre ci siamo battuti.
E ci domandiamo anche, come possa essere sostenibile che, a fronte degli ennesimi tagli pretesi alle retribuzioni presenti e future di tanti lavoratrici e lavoratori, si possa tollerare, a tutti i livelli, il perdurare di incessanti dinamiche di crescita retributiva dei top manager, per altro mai chiamati a rispondere realmente del proprio operato, anche quando questo si dimostra rovinoso per le aziende condotte.
Ci pare proprio di poter dire che questa dicotomia, tra la pretesa di tagliare retribuzioni sempre più prossime ad essere appena sufficienti a garantire la dignità della persona e quella di mantenere o irrobustire situazioni di irragionevole privilegio, sia, non solo simbolicamente, rappresentativa di quanto richiamato dalle parole di Papa Francesco e di quelle disuguaglianze che ormai, anche una gran parte degli economisti, riconoscono come causa del perdurare della crisi.
Il 30 gennaio, dopo decenni di pace sociale, mantenuta pur nelle difficoltà imposte dai continui cambiamenti, le lavoratrici ed i lavoratori bancari sciopereranno per la seconda volta in poco più di un anno e manifesteranno compatti per la difesa dei loro diritti, delle loro tutele e del loro essere categoria, per dare una possibilità di lavoro dignitoso a chi oggi lo sta ancora cercando, per garantire al Paese un sistema bancario al servizio degli interessi dei cittadini e delle imprese.ù
Auspichiamo che il Vostro saggio e autorevole intervento possa contribuire a recuperare ciò che oggi sembra perduto, per il lavoro, per le imprese, per l’Italia.
Roma, 26 gennaio 2015
I SEGRETARI GENERALI
L. Sileoni – G. Romani – A. Megale – M. Masi – M- Arena – F. Verelli – P. Pisani – E.Contrasto
FABI – FIBA CISL – FISAC CGIL – UILCA – DIRCREDITO – UGL CREDITO – SINFUB - UNISIN